Fin dall’inizio della mia carriera di homebrewer ricordo la paura dell’ossigeno e dell’ossidazione. Guai a splashare il mosto o la birra, l’unica fase nella quale era permesso era in prossimità dell’inoculo del lievito, per favorirne la riproduzione. Avendo negli anni approfondito l’argomento, la questione si è rivelata molto più complessa, anche se alcuni di quei consigli iniziali rimangono validi.
Sull’ossidazione nella birra vi sono innumerevoli articoli scientifici. Essa è infatti la principale causa della “scadenza” della birra industriale (seguita dalla formazione di torbidità, legata anch’essa in parte all’ossidazione), e quindi uno dei difetti più diffusi in queste birre di largo consumo. Le note ossidate vengono tradizionalmente associate ai sentori di “cartone bagnato”, conferiti dal trans-2-nonenale, una molecola derivante principalmente dall’ossidazione degli acidi grassi. Tuttavia, l’ossidazione comporta la produzione di molte molecole, alcune responsabili di difetti, altre invece fonti di aromi gradevoli (come ad esempio le piacevoli note di marsalato e sherry che caratterizzano un barley wine invecchiato). Mi è capitato di leggere diversi articoli scientifici a riguardo, e mi è divenuto presto chiaro che l’ossidazione comprende una serie innumerevole di reazioni chimiche, comportando quindi la produzione di una miriade di molecole, ed implicando una quantità di variabili difficili da cogliere interamente nella loro complessità. Tuttora diversi meccanismi di questo insieme di reazioni non sono del tutto chiari ai ricercatori del settore. A chi volesse approfondire la tematica ed ha buone competenze chimiche, lascio in fondo all’articolo alcune fonti che ho trovato molto complete ed interessanti. Altrimenti, in questo post cercherò di fare un mio personale riassunto (i chimici vorranno perdonarmi alcune semplificazioni).
Iniziamo definendo l’ossidazione. L’ossidazione è una reazione chimica che prevede lo scambio di uno o più elettroni tra diversi atomi/molecole. Per una specie chimica che cede un elettrone (ed è quindi colei che si ossida), ve n’è una che lo acquista (e si riduce). Ne deduciamo che questo tipo di reazione non comprende per forza la presenza di ossigeno. Ma allora esso cosa c’entra? L’ossigeno è uno dei catalizzatori più comuni per le reazioni di ossidazione, avendo una buona capacità di strappare elettroni ad altre specie chimiche. L’ossigeno tal quale, tuttavia, non è molto reattivo nei confronti delle molecole organiche presenti nella birra. Esso deve prima venire “attivato”. Questo fenomeno viene catalizzato generalmente o dalla presenza di ioni metallici (in particolare ferro, rame e manganese), o da altre fonti energetiche come ad esempio la luce. Una volta attivato l’ossigeno crea le cosiddette specie reattive dell’ossigeno (ROS – Reactive Oxygen Species), un gruppo di molecole instabili in grado di strappare facilmente un elettrone ad altre molecole. Una molecola a cui è stato sottratto un elettrone presenta quindi un elettrone spaiato, e viene detta radicale (qualcuno si ricorderà dei fantomatici “radicali liberi”, largamente nominati nelle pubblicità di integratori alimentari di qualche anno fa, in quanto molecole associate all’invecchiamento cellulare). Un radicale è a sua volta una molecola molto reattiva, e può legarsi ad altro ossigeno, strappare un elettrone ad un’altra molecola, etc. Le reazioni radicaliche generalmente evolvono quindi con un meccanismo a cascata, ossia da un singolo iniziatore si crea una lunga successione di reazioni nel quale la presenza di radicali e di molecole instabili aumenta. Questo genere di meccanismo trova una fine o quando due radicali reagiscono tra di loro (creando quindi nuovamente una coppia di elettroni appaiati, e quindi stabili), o quando un radicale si stabilizza strappando un elettrone ad una molecola che è molto stabile anche in forma radicalica, e che quindi non reagisce con altre molecole, terminando la reazione (e questo è il principio di funzionamento di alcuni antiossidanti, detti chain breaker).

Uno degli effetti di queste reazioni è quello di favorire la scissione di molecole grandi (un esempio su tutti gli acidi grassi) in molecole più piccole, e quindi più volatili, percepibili all’olfatto (sgradevoli o gradevoli che siano). Il decorso di questa decomposizione non è per forza di cose rapido. Anzi, se le fasi iniziali di questa reazione possono avvenire ad esempio durante l’ammostamento, la generazione delle molecole volatili e che quindi originano il difetto può avvenire anche mesi dopo in bottiglia! Questo fenomeno si spiega con il fatto che alcuni processi ossidativi creano dei cosiddetti “precursori” della degradazione ossidativa, ossia molecole mediamente stabili, non percepibili all’olfatto. Con il tempo queste però decadranno in molecole volatili e percepibili (anche in assenza di ossigeno). Questo fenomeno coinvolge ad esempio la formazione del sopracitato trans-2-nonenale, formazione che viene “inizializzata” già durante la produzione del mosto, creando un cosiddetto “trans-2-nonenal potential”, che si esplicherà solamente mesi dopo che la birra sarà stata confezionata, impartendo i sentori di cartone bagnato. Da questo possiamo dedurre che il controllo dell’ossidazione è importante non solamente durante l’imbottigliamento, ad esempio limitando la presenza di ossigeno in bottiglia, ma fin dalla produzione del mosto (anzi, fin dalla produzione del malto). Cerchiamo quindi di riassumere i fattori che promuovono l’ossidazione durante tutta la filiera, e vediamo cosa possiamo fare per prevenirli:
- Enzima lipossigenasi: questo enzima è presente nel germe dell’orzo, e catalizza l’ossidazione di un acido grasso. L’acido grasso ossidato (idroperossido) è quindi più prono a decadere in composti sgradevoli e a dare inizio ad un meccanismo di ossidazione radicalica. Nell’orzo sono presenti due lipossigenasi, dette LOX-1 e LOX-2, entrambe termosensibili. LOX-2 viene denaturata durante la maltazione, mentre la LOX-1 può permanere fino all’ammostamento. Tuttavia anch’essa si denatura rapidamente, soprattutto a temperature di mash-in intorno ai 60°C.
- Presenza di ossigeno: pur non essendo l’unico responsabile, l’ossigeno è uno dei maggiori fattori che concorre all’ossidazione. Cercare di escluderlo il più possibile durante tutte le fasi di produzione limiterà la formazione dei precursori responsabili dello scadimento ossidativo.
- Metalli catalizzatori: ferro, rame e manganese sono i tre metalli che promuovono maggiormente l’attivazione dell’ossigeno in ROS. E’ importante quindi che le loro concentrazioni vengano ridotte al minimo.
- Temperatura: la temperatura gioca un ruolo chiave in due sensi. Maggiore la temperatura, minore la solubilità dell’ossigeno nei liquidi, ma maggiore la velocità delle reazioni (sia di ossidazione che di decomposizione dei precursori). Viceversa, più bassa la temperatura, maggiore la solubilità dell’ossigeno ma più rallentate le reazioni.
- Presenza di altri composti pro-ossidanti/anti-ossidanti: polifenoli, melanoidine, etc. Nella complessità chimica della birra vi sono diverse molecole che hanno azione anti-ossidante. Gli esempi maggiori sono i polifenoli (derivanti da luppolo e malto) e le melanoidine (molecole derivanti dalla reazione a caldo tra uno zucchero e un amminoacido). Entrambe queste classi di molecole possono però anche agire da pro-ossidanti, in determinate condizioni e una volta ossidate a loro volta.
Alcune misure preventive possono essere quindi:
- Utilizzare malti a basso contenuto di LOX, o comunque eseguire un mash-in già a temperatura di saccarificazione (62-65°C);
- Limitare l’inglobamento di ossigeno evitando sempre di splashare il mosto o la birra, ad esclusione dell’eventuale ossigenazione in corrispondenza dell’inoculo del lievito. Quando le attrezzature lo permettono, i birrifici ricorrono anche a macinazione, ammostamento, etc. sotto azoto.
- Controllare le temperature: la temperatura è forse uno dei fattori tecnologicamente più facilmente controllabili durante la filiera. In particolare, mantenere la catena del freddo è il parametro che permette il maggiore beneficio in termini di resistenza all’ossidazione. A basse temperature viene rallentata l’ossidazione dovuta ad eventuale ossigeno presente nella bottiglia/fusto/lattina, e viene rallentata anche la decomposizione dei precursori dell’ossidazione creati inevitabilmente nelle fasi produttive precedenti.
- Utilizzo di additivi antiossidanti: nella birra sono permessi additivi antiossidanti, e nello specifico solfiti/anidride solforosa ed acido ascorbico. Queste sostanze permettono una maggiore resistenza nei confronti dell’ossidazione.
L’ossidazione è un fenomeno che tuttavia va contestualizzato in base alla propria realtà produttiva. Essa rappresenta il problema maggiore per i birrifici industriali in quanto la filiera lunga non permette assolutamente (in ottica economicamente sostenibile) un controllo delle temperature a cui viene sottoposto il prodotto durante il trasporto/stoccaggio prima che arrivi al consumatore. Va da sé che una birra lager in bottiglia, conservata ad esempio d’estate a 30-35°C per giorni/settimane, e con una vita da scaffale di 18-24 mesi, subirà drasticamente uno scadimento ossidativo, anche con una bassa quantità di ossigeno in essa disciolto, e con una limitata quantità di precursori dell’ossidazione.

Di contro, un homebrew che non abbia particolare controllo dell’ossigeno durante la filiera, ma che rifermenti la birra (riducendo il contenuto di ossigeno presente in bottiglia), e conservi il prodotto al fresco in cantina e lo consumi nel giro di 5-8 mesi, potrebbe ritrovarsi a non consumare mai una sua birra che presenti difetti associabile ad un’avvenuta ossidazione.
Quest’ultima affermazione cambia se però prendiamo in considerazione le moderne birre luppolate (in particolare stili PESANTEMENTE luppolati, come le DDH IPA, NEIPA, etc.). Data la sostanziale quantità di oli essenziali e polifenoli conferiti dai luppoli, la stabilità ossidativa della birra è molto diversa da una birra “tradizionale”. Gli oli aromatici sono infatti molecole tendenzialmente lipidiche molto instabili, che possono risentire molto facilmente di fenomeni ossidativi. In questo caso anche piccole quantità di ossigeno o di molecole precursori possono portare rapidamente all’ossidazione di queste molecole (e dei polifenoli), compromettendo irrimediabilmente l’aroma ed il colore (imbrunimento ossidativo) della birra. Per questa tipologia di birre quindi si richiede maggiore attenzione, tenendo comunque in considerazione il fatto che sono birre inevitabilmente soggette ad una breve shelf-life. Le soluzioni più facilmente applicabili sono due: l’esclusione dell’ossigeno (effettuando quindi un confezionamento in isobarico, utilizzando la CO2 anche per pre-evacuare bottiglie/lattine/fusti); ed il mantenimento della catena del freddo. Nel caso del riempimento isobarico non vi è nemmeno la necessità di portare la birra a temperatura più alta per la rifermentazione, quindi in questo caso la catena del freddo potrebbe essere virtualmente mantenuta dal fermentatore (nel momento del dry-hopping) fino al bicchiere. Certamente anche limitare la formazione di precursori nelle fasi produttive del mosto è un accorgimento, ma come abbiamo visto precedentemente, spesso l’attrezzatura necessaria non è a disposizione di tutti.
Alla luce di quanto scritto finora, possiamo concludere che l’ossidazione è un processo inevitabile, che possiamo però cercare di controllare e rallentare, in relazione alla tipologia di birra prodotta e di impianto produttivo in possesso. Essa è un fattore del quale tenere conto, ma senza esagerare con le paranoie. Va valutata caso per caso, in modo da adottare le misure necessarie e sufficienti a prevenirla.

Nel prossimo articolo parleremo nuovamente dell’ossigeno, ma di come esso sia coinvolto nel metabolismo del lievito.
Articoli sull’ossidazione:
Vanderhaegen, B., Neven, H., Verachtert, H., Derdelinckx, G., 2006. The chemistry of beer aging – a critical review. Food Chem. 95, 357-381.
Bamforth, C. W., 2011. 125th Anniversary Review: The Non-Biological Instability of Beer. J. Inst. Brew. 117, 488-497.