Continua il nostro viaggio nel mondo delle birre luppolate, e come anticipato nello scorso capitolo, stavolta ci addentreremo nella teoria e nella pratica di una tecnica di luppolatura non esattamente recente, ma ancora relativamente poco diffusa: il dip hopping.

Partiamo dalle origini. Il dip hopping fa la sua prima comparsa al congresso EBC del 2013, a Lussemburgo. Qui, alcuni ricercatori (Noro et al.) del gruppo Kirin (uno dei maggiori produttori di birra in Giappone), presentano in un poster alcune tecniche innovative di luppolatura, tra cui il suddetto dip hopping. Il poster non è stato pubblicato, e le uniche informazioni che si possono ottenere online sono un riassunto del contenuto, nel quale si parla genericamente di una tecnica in grado di massimizzare l’estrazione di composti gradevoli (per i quali il linalolo è la molecola utilizzata come indicatore), e limitare invece la presenza di altri composti meno gradevoli, di norma associati con il dry hopping (ad es. mircene e composti solforati). Viene anche specificato che l’aggiunta del luppolo viene fatta nel fermentatore, in presenza del lievito, e che le temperature utilizzate limitano l’isomerizzazione degli alfa-acidi. In pratica, questa tecnica sembrerebbe ottenere il meglio del late hopping in bollitura (ovvero la rimozione per volatilizzazione dei composti sgradevoli) e del dry hopping (massima ritenzione dei composti aromatici positivi).

La seconda comparsa del dip hopping è nel 2018, durante il Brewing Summit a San Diego, anche in questo caso tramite un poster presentato da cinque ricercatori del gruppo Kirin (Tsuchiya et al.). Nell’introduzione vengono riportati alcuni risultati del lavoro precedente, e un grafico che evidenzia come il dip hopping porti ad un’estrazione di linalolo paragonabile al dry hopping (e superiore al late hopping), e una rimozione quasi completa del mircene, similmente al late hopping (e al contrario del dry hopping).

Estrazione di linalolo e mircene con le varie tecniche di luppolatura (modified from Tsuchiya et al., 2018)

Inoltre, nella ricerca presentata è stata approfondita l’influenza del dip hopping sulla cinetica fermentativa e sulla produzione di un off-flavor solfidrico (2-mercapto-3-metil-1-butanolo – 2M3BM; molecola dai sentori di cipolla, derivante dall’ossidazione a caldo di alcuni iso-alfa-acidi, e dalla loro reazione con l’acido solfidrico – H2S). Il dip hopping presenterebbe un effetto positivo sulla fermentazione, in quanto le particelle di luppolo in sospensione favorirebbero la nucleazione dell’anidride carbonica disciolta, la formazione di bolle di CO2 gassosa, e quindi la sua separazione (come quando buttiamo del luppolo in una birra satura di CO2, causando l’istantanea formazione di bolle di anidride carbonica. Chi fa dry hopping in pressione lo sa bene). Essendo l’anidride carbonica disciolta un fattore inibente per la crescita e l’attività del lievito, la sua rimozione favorisce la moltiplicazione cellulare e l’attività fermentativa, oltre ad aumentare l’agitazione fisica del mosto (causata dalla corrente di bolle di CO2 che risalgono), promuovendo ulteriormente la velocità di fermentazione. Questo effetto positivo è stato riscontrato dai ricercatori Kirin anche aggiungendo in fermentazione delle particelle di carbone attivo, materiale inerte che ha favorito anch’esso la nucleazione e rimozione della CO2, provocando sulla cinetica fermentativa i medesimi effetti positivi riscontrati con il dip hopping. Inoltre, il dip hopping favorirebbe anche la rimozione (per “strippaggio” insieme all’anidride carbonica) dell’acido solfidrico, riducendone le quantità nella birra finita, oltre a limitare la sua reazione con altre molecole e la formazione di altri composti non gradevoli.

Qui finisce la produzione scientifica che riguarda il dip hopping, ed inizia il suo avvento nel mondo craft.

Negli anni seguenti il dip hopping fa capolino in diversi articoli divulgativi (per citarne alcuni, la newsletter di John I. Haas nel 2019, l’articolo di Brew Your Own nel 2021, su Cronache di Birra nel 2022, etc.), che ne parlano soprattutto da un punto di vista pratico, basandosi sull’esperienza di alcuni birrai americani. I primi a metterlo in pratica negli USA sono stati Van Havig e Ben Love del birrificio Gigantic Brewing (Portland, Oregon), che sono venuti a conoscenza di questa tecnica proprio durante un viaggio in Giappone, mentre visitavano il birrificio Spring Valley (di proprietà Kirin), nel quale veniva utilizzata. I dettagli pratici del dip hopping tuttavia non vennero divulgati dai birrai giapponesi (essendo questi anche coperti da brevetto), ma Van Havig e Love iniziarono ad applicare questa tecnica secondo le informazioni raccolte, colmando le lacune su alcuni dettagli con la loro esperienza. Sulla scorta dei primi risultati promettenti di Van Havig e Love, altri birrai hanno condotto ulteriori prove e varianti di questo processo, modificandone alcuni parametri.

Prima di vedere però le interpretazioni craft, e dare alcuni consigli pratici, focalizziamoci nuovamente su quali sono le peculiarità del dip hopping, per come è stato sviluppato dalla Kirin (e in base alle informazioni che sono state fatte trapelare).
Viene creata una miscela di luppolo (in acqua o mosto caldi), che viene lasciata in pre-infusione per una certa quantità di tempo. Quindi questa miscela viene raffreddata ed aggiunta al mosto freddo, in concomitanza all’inoculo del lievito. Segue il processo normale di fermentazione, maturazione, etc.
In pratica si tratta di luppolo che viene sottoposto a una pre-infusione a caldo, e poi aggiunto nel fermentatore nel giorno zero della fermentazione.

Schematizzazione della produzione di birra, includendo anche la fase del dip hopping (che può essere eseguito con acqua, o con mosto prelevato dal tino di bollitura). Può anche non esserci un tino fisicamente dedicato, ovvero l’infusione può essere fatta direttamente nel fermentatore.

Detto così sembra semplice, ma rimangono diverse variabili chiave del processo da stabilire:
1) infusione in acqua o mosto?
2) che rapporto tra il liquido per l’infusione ed il luppolo?
3) che temperatura adottare per l’infusione?
4) quanto far durare l’infusione?
5) infusione in ambiente privo di ossigeno?

Leggendo il brevetto JP2013132275A registrato da Kirin Brewery Co Ltd nel luglio 2013, troviamo queste indicazioni generiche:
As conditions for the heat treatment of the hops, the temperature is 65°C or higher and lower than 90°C, and 65 to 70°C is particularly preferable. The treatment time is 1 minute or more and less than 60 minutes, preferably 1 to 30 minutes, more preferably 1 to 10 minutes.
The hop heat treatment can be performed in a temperature-controlled water bath. For example, the heat treatment of hops adds a sufficient amount of water (eg, about 50 times the weight of hops) to the hops, and maintains the temperature of the water at the above temperature for the above time, and then it can be carried out by immediately cooling to room temperature (for example, about 25°C.) and storing it as it is.

Queste righe danno alcune risposte, anche se vaghe, alle nostre domande.
1) infusione in acqua o mosto? Acqua
2) rapporto liquido/luppolo? 50:1 (generico)
3) temperatura di infusione? 65-90°C (65-70°C)
4) durata infusione? 1-60 min (1-10 min)
5) infusione in ambiente privo di ossigeno o no? Non menzionato

Vediamo ora invece come effettua il processo il summenzionato birrificio Gigantic Brewing:
1) infusione in acqua o mosto? Acqua
2) rapporto liquido/luppolo? 16:1
3) temperatura di infusione? 77°C
4) durata infusione? 60 min
5) infusione in ambiente privo di ossigeno o no? Non menzionato/No

Altri birrai hanno poi utilizzato altre condizioni, ovvero infusione nel mosto (prelevato a inizio bollitura), rapporti volume/luppolo diversi, temperature più alte e più basse, e tempistiche diverse. Inoltre, più di qualcuno satura il serbatoio dove viene effettuata l’infusione con CO2. Sicuramente c’è spazio per diverse sperimentazioni, senza perdere però di vista eventuali rischi, anche di contaminazioni. Questa tecnica presenta solamente due maggiori svantaggi, ovvero la necessità di un serbatoio in più (a meno di non utilizzare il fermentatore stesso come tank per l’infusione), con qualche accortezza per il controllo delle temperature durante il processo, e l’ovvia conseguenza che come per il dry hopping in fermentazione tumultuosa, non sarà possibile riutilizzare il lievito, in quanto troppo “sporcato” dai residui di luppolo.

In conclusione di questo articolo, ecco alcuni suggerimenti sulle condizioni che sceglierei per questa tecnica (e che sto testando nelle mie produzioni), e le mie personali motivazioni (non esenti da cambiamenti nel futuro 😀).

1) infusione in acqua o mosto? Acqua
Logisticamente mi sembra più pratico effettuare l’infusione in acqua. Non mi piace l’idea di prelevare del mosto a inizio bollitura, doverlo raffreddare parzialmente, e di non far compiere ad esso l’intera durata della bollitura. Utilizzando acqua, dovremo tenere conto dell’effetto di diluizione, ma non dovremo preoccuparci di eventuali problemi dati dall’aggiunta di mosto non adeguatamente bollito (in particolare penso al DMS, alla potenziale non completa pastorizzazione, e alla non formazione del trub a caldo). Comunque sicuramente i lati negativi sono molto contenuti, quindi anche l’utilizzo di mosto è una via percorribile, e potrebbe per qualcuno anche semplificare il tutto.

2) rapporto liquido/luppolo? 15-20:1
Non ho trovato fonti precise sull’assorbimento di liquido del luppolo, ma indicativamente si aggira intorno alle 5-10 volte il suo peso. Per avere quindi un’infusione efficace di tutta la massa di luppolo, suggerisco una quantità di acqua/mosto almeno pari a 15 volte il peso del luppolo. Se è necessario trasferirla da un serbatoio all’altro, salire anche a 20-30 volte ci permette di ottenere una miscela più liquida e più gestibile. Inoltre, da un punto di vista teorico, più diluiamo e più l’estrazione dei composti e il loro “strippaggio” è efficace.
Di contro, più acqua utilizziamo e maggiore sarà la diluizione del mosto (se utilizziamo appunto acqua e non mosto stesso), quindi di conseguenza più concentrato dovrà essere il mosto di partenza.
Teniamo anche conto delle temperature. Se misceliamo ad esempio 120 g di luppolo a 20°C con 1,8 L di acqua a 77°C, la miscela risultante avrà una certa temperatura. Se aumentiamo la quantità di acqua, la temperatura alla quale si stabilizzerà la miscela sarà maggiore. Se non abbiamo modo di alzare la temperatura successivamente, è importante considerare questo fattore quando calcoliamo a che temperatura scaldare l’acqua (o raffreddare il mosto, se utilizziamo quest’ultimo), prima di unirla al luppolo.

3) temperatura di infusione? 65-75°C
La temperatura ha il ruolo chiave di favorire l’evaporazione dei composti volatili (sgradevoli), e potenzialmente di causare una parziale ossidazione positiva di alcuni composti, creando aromi gradevoli. D’altra parte, una temperatura troppo alta porterebbe ad una significativa isomerizzazione degli alfa-acidi, nonché alla eccessiva rimozione anche di composti aromatici gradevoli. E’ un po’ lo stesso compromesso che cerchiamo durante la luppolatura in hopstand, per il quale è noto si utilizzano generalmente temperature tra i 70 e 85°C. In questo caso però possiamo permetterci tempi più lunghi di estrazione, quindi utilizzare anche temperature più basse. In medio stat virtus, quindi non avendo dati scientifici precisi, e stando al range indicato da Kirin, 65-75°C mi sembra un buon compromesso.

4) durata infusione? 30 min
Maggiore il tempo ad elevata temperatura, maggiore l’estrazione di aromi, polifenoli, e la rimozione degli aromi più volatili. Maggiore anche l’ossidazione dei composti più sensibili. Anche in questo caso quindi andrebbe cercato un compromesso. A differenza dell’hopstand, durante il quale dobbiamo massimizzare l’estrazione in quanto successivamente rimuoveremo il luppolo dal mosto, nel dip hopping, tutta la miscela poi rimarrà comunque a contatto con il mosto durante la fermentazione, continuando l’estrazione. Prolungare eccessivamente questa sosta potrebbe a mio avviso non avere grandi effetti benefici, quindi mi attesterei su 30 minuti (anche se è sicuramente interessante fare delle prove a 15 o a 60 minuti).

5) infusione in ambiente privo di ossigeno o no? No
Personalmente in questa fase non credo si abbiano particolari benefici a lavorare in un ambiente privo di ossigeno. Lo scopo, come abbiamo visto, è quello di “strippare” dei composti volatili, quindi lavorare in pressione non aiuta. Anzi, è importante che il contenitore dove si effettua l’infusione abbia un importante spazio di testa, che favorisca la volatilizzazione di mircene, etc.
Anche il timore dell’ossidazione in questo processo credo sia trascurabile, e oltretutto è probabile che una parziale ossidazione di alcuni composti, abbia in questa fase degli effetti positivi. Personalmente non andrei a saturare il contenitore di CO2, mi limiterei a prestare attenziona a non ossigenare eccessivamente l’infuso.

Da un punto di vista pratico, a livello homebrewing il mio primo tentativo di dip hopping l’ho condotto così:
a fine sparge ho inserito nel tino dell’acqua calda (lo sparge water heater Grainfather), una quantità di acqua pari a 20 volte il peso dei luppoli (ovvero per 200 g di luppolo, 4 L di acqua). L’ho portata a 75°C, e quindi, a circa 15 minuti dalla fine della bollitura, ho aggiunto il luppolo, solubilizzandolo delicatamente. Ho chiuso con coperchio, e lasciato in infusione senza controllo di temperatura per il resto della cotta. La temperatura è scesa man mano di circa 10-15°C. Successivamente ho iniziato a trasferire il mosto a circa 14°C, e a metà trasferimento aggiunta la miscela di acqua e luppolo (nella ricetta avevo tenuto conto di questa diluizione). A fine raffreddamento la temperatura si era attestata a 22°C, ho proceduto a terminare il raffreddamento nel fermentatore a temperatura controllata, e un paio di ore dopo, a 18°C, ho inoculato il lievito.
Durante l’infusione ho notato che dal tino dell’acqua calda uscivano effettivamente i composti più pungenti del luppolo (dipende anche dalle varietà utilizzate, io avevo usato Lemondrop e Mandarina Bavaria), e anche nella birra finale, mi è sembrato di cogliere quasi solo note fruttate, e nessuna nota vegetale o pungente (la ricetta completa e le opinioni le trovate qui). Al dip hopping è seguito dry hopping durante la fermentazione tumultuosa, e nessun dry hopping in maturazione). Tuttavia non ho un riscontro di una ricetta uguale ma senza dip hopping, quindi manca un confronto diretto per poter trarre conclusioni un po’ più affidabili. Da un punto logistico è una tecnica che non mi ha creato particolari difficoltà, ed essendo io un amante della parte più dolce dei luppoli (e non gradendo affatto le note pungenti e sulfuree), sicuramente la riproverò.

Considerazioni finali: il dip hopping è a mio avviso una tecnica intermedia tra l’hopstand e il dry hopping in fermentazione tumultuosa, e si avvicina molto a quest’ultima. La differenza principale è la temperatura, che a livello teorico potrebbe causare la volatilizzazione di alcuni composti che altrimenti la sola attività fermentativa non sarebbe sufficiente a strippare. Questa potrebbe anche promuovere l’ossidazione e decomposizione di alcuni composti, che alle normali temperature di fermentazione non avverrebbero.
Nel caso invece basse fermentazioni, dove le interazioni del lievito con il luppolo e lo strippaggio dovuto all’attività fermentativa sono molto più contenute, il dip hopping potrebbe decisamente fare un’enorme differenza sul profilo aromatico finale.
Infine, nel caso si utilizzasse acqua come “solvente di estrazione” anziché mosto, questa in via teorica potrebbe favorire l’estrazione di composti diversi…
Un sacco di se e di ma, poiché di certezze nel dip hopping ce ne sono ancora molto poche…
Per quanto riguarda invece le differenze con l’hopstand, queste sono più nette. In primis, i tempi di estrazione dell’hopstand sono molto più brevi. Inoltre, il luppolo utilizzato in hopstand rimane nel tino whirlpool, limitando quindi le interazioni con il lievito, se non quelle dei composti già passati in soluzione.
Il principale svantaggio del dip hopping è una gestione un po’ più complessa rispetto ad altre tecniche di luppolatura, e l'”inquinamento” del lievito, rendendone impossibile il recupero.

Si tratta di una tecnica che rivoluzionerà le luppolate? Personalmente non credo. Sicuramente è un altro utile strumento per il birraio, soprattutto per esaltare nuovi aromi da varietà altrimenti meno adatte ai classici dry hopping, o per produrre basse fermentazioni luppolate meno convenzionali.
Le varietà che invece rendono già molto bene in dry hopping non è detto che trovino grandi giovamenti da questa tecnica, anzi, potrebbero perfino risultarne penalizzate. Luppoli che invece possiedono un profilo aromatico promettente, ma coperto da un’eccessiva quantità di aromi pungenti e sgraziati, potrebbero rivelarsi sorprendentemente interessanti grazie al dip hopping.

Alla fine di tutto questo parlare, viene sicuramente una gran curiosità di assaggiare il risultato del dip hopping. E in Italia? Possiamo trovare birre dip-hoppate? Ovviamente il sempre attivo e vivace movimento craft italiano non è rimasto a guardare, ed ha già iniziato a sperimentare. Nel prossimo articolo faremo quattro chiacchiere virtuali con due birrai che hanno iniziato a cimentarsi col dip hopping, e con risultati molto promettenti!

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