Nella scorsa parte abbiamo visto i principi generali con i quali, dal mio punto di vista, possiamo approcciarci alla formulazione di una ricetta. In questo articolo volevo invece ripercorrere gli aspetti pratici della stesura, descrivendo passo passo una mia ricetta (alla sesta-settima versione ormai), una blanche.
L’idea per questa ricetta nacque anni or sono, quando, leggendo il mio primo libro sulla birra, la descrizione di una blanche attirò la mia attenzione. All’epoca alcune delle poche birre che bevevo erano proprio degli esempi commerciali di questo stile (Blanche de Namur e Hoegaarden in primis). Negli anni la ricetta ha cambiato diversi aspetti, a mio avviso migliorando molto. Nella tabella sottostante trovate l’ultima versione.

Facciamo però prima un passo indietro. La formulazione di questa ricetta nasce (nella sua prima versione) dalla lettura delle linee guida dello stile del BJCP, e dalla riproduzione della ricetta presente proprio sul libro di cui parlavo prima (Birre fatte in casa – Una guida step-by-step per preparare la vostra birra, di G. Hughes). Si trattava di una ricetta molto classica, tuttavia ricordo che il risultato non mi soddisfò particolarmente (probabilmente più per alcune imprecisioni esecutive che non per la ricetta in sé). Cercai di inquadrare quali aspetti non mi convincessero, e per cercare di capire meglio cosa volevo cambiare, mi procurai 6-7 diversi esempi di bière blanche, e le assaggiai, prendendo nota degli aspetti che mi piacevano e che volevo imitare, e quali invece non avrei voluto avere nella mia birra. L’esempio commerciale che ricordo bene si avvicinò di più alla mia “blanche ideale” fu la Celis White, la bière blanche prodotta negli USA proprio da Pierre Celis, considerato colui che ha riportato in auge questo particolare stile belga, impedendo che venisse dimenticato. Inquadrate le caratteristiche sensoriali, oltre a figurarmele mentalmente, me le scrissi per avere un riferimento nel momento in cui sarei poi andato a valutare il risultato (Aspetto: giallo pallido, velatura consistente, schiuma bianca e pannosa. Olfatto: delicato e fresco, note fruttate/agrumate, con una leggera speziatura e note fenoliche. Gusto: né dolce né amara, gusto leggero e di cereale, con un abboccato setoso, fresco, e una leggera acidità. Gasatura vivace ma non troppo. Retrolfatto: speziatura fresca e ritorno delle note fruttate a agrumate). Il passo successivo è individuare i parametri e gli ingredienti per ottenere questo risultato. Partiamo dai valori cardinali: OG 1.050 (un valore abbastanza medio nel range dello stile), IBU 20 (medio basso, l’amaro non deve sentirsi ma deve bilanciare la dolcezza per non ottenere una birra stucchevole), EBC 5-6 (deve essere di un color giallo pallido).
Proseguiamo con il grist: Componente fondamentale di questo stile è il frumento non maltato, che oltre all’aroma caratteristico del frumento conferisce anche una quantità maggiore di proteine che donano corpo e torbidità. Inoltre grandi quantità di frumento apportano anche una punta acidula alla birra. Dopo vari tentativi mi sono attestato su una percentuale di frumento elevata (42%, composto da 30% in fiocchi e 12% maltato). Ho optato per la miscela fiocchi/malto per avere un maggiore potere diastatico e per limitare un po’ il potenziale impaccante dei fiocchi (oltre ad utilizzare la lolla). Per contribuire alla consistenza setosa ho aggiunto 8% di fiocchi d’avena. Il resto del grist è pilsner belga.

L’ammostamento in questo caso ha lo scopo di dare un mosto abbastanza fermentescibile, in quanto voglio che la birra risulti mediamente secca e beverina nel finale. Date le elevate quantità di frumento, si può valutare un breve protein rest, che però nell’ultima versione non ho fatto. La sosta di saccarificazione è divisa in due step, uno a 65°C per favorire una buona azione combinata di beta e alfa amilasi, ed un mosto mediamente fermentescibile. L’altro step prevede invece la fine della saccarificazione a 70°C, temperatura ideale per le alfa amilasi. Ritengo, a seguito di confronti con un collega birraio molto capace e di letture di alcuni articoli scientifici, che dopo 30 min a 65°C la quasi totalità della beta amilasi abbia perso la sua attività, essendo termolabile. Quindi diventa più sensato terminare la saccarificazione facendo lavorare al meglio l’enzima rimasto, ossia la alfa amilasi, con optimum di temperatura di 70-72°C. Segue il classico mash out a 75-78°C.
La luppolatura è altrettanto semplice. Per l’amaro opto per il Cascade, che ritengo conferisca un amaro molto bilanciato (altri luppoli old school con amaro elegante possono andare bene ugualmente, la mia è una scelta personale). Lo uso (in basse quantità) anche per una leggera gittata in aroma, in quanto ritengo abbia un profilo che ben si può combinare con gli aromi di spezie e lievito usati. Il luppolo da amaro lo uso in first wort perché qualcuno afferma che la graduale ossidazione degli alfa-acidi durante la rampa termica favorisca la formazione di composti amaricanti più “morbidi”. Non ho avuto modo di fare test metodici per verificare la fondatezza di ciò, ma comunque è un’operazione che non mi costa nulla, in più mi evita il rischio di boil-off del fare la gittata nel mosto all’inizio della bollitura. Il fatto che l’uso del first wort possa sballare le stime dell’amaro di qualche IBU non mi turba più di tanto. Reputo che a livello homebrewing/microbirrifici gli IBU siamo comunque una stima molto aleatoria, che in realtà andrebbe verificata con misure analitiche per trovare la reale efficienza di isomerizzazione del proprio impianto nelle proprie ricette. Quindi piuttosto che farmi mille crucci sullo stimare un numero in senso assoluto, preferisco valutare poi il risultato e aumentare/diminuire di conseguenza l’IBU stimato.
Passiamo alla speziatura, aspetto che invece ho cambiato più volte nel corso degli anni, e che mi crea i dilemmi maggiori. Opto per le spezie classiche: buccia d’arancia amara e coriandolo. Affianco anche la buccia d’arancia dolce e una piccola quantità di camomilla (qualcuno dice che sia presente anche nella ricetta della Celis White). Dopo aver provato vari schemi di speziatura (tutto a 5 minuti dalla fine della bollitura, metà a 10 minuti e metà in whirlpool, diversi dosaggi, etc.), sono attualmente approdato ad una gittata a 5 minuti per gli agrumi (per favorire una parziale ossidazione degli oli essenziali) e una gittata in whirlpool delle altre spezie (con l’idea di favorire al massimo la ritenzione degli oli essenziali e al minimo l’estrazione di composti fenolici). Sui dosaggi devo ancora sperimentare più approfonditamente. Il risultato voglio che sia un aroma complessivo fine ed elegante, nel quale nessuna delle spezie sia così evidente da venire facilmente riconosciuta.

Passiamo infine all’altro aspetto sul quale ho effettuato più tentativi negli anni: il lievito. Opto attualmente per un lievito liquido, il Wyeast Belgian Wit. Il profilo che cerco è un fruttato/fenolico piacevolmente fresco, che non abbia note accentuate di banana. Dopo vari tentativi, attualmente effettuo un buon inoculo (anche se spannometrico poiché è difficile stimare l’effettiva vitalità di un lievito liquido, oltretutto dopo uno starter), con mosto ossigenato (non ho modo di verificare i ppm effettivi di ossigeno disciolto, comunque utilizzo il metodo dell’agitazione del fermentatore per alcuni minuti), e fermentazione primaria a 23°C. Il profilo fermentativo così ottenuto è a mio avviso molto piacevole, anche se migliorabile. Conferisce un profilo al naso leggermente fruttato e fenolico. Al retrogusto il fenolico diventa più intenso, con qualche nota terrosa/amarognola che vorrei riuscire a equilibrare meglio.
Per quanto riguarda l’acqua, il profilo scelto è abbastanza semplice. Una media quantità di calcio per la corretta azione di enzimi e lievito, sodio un po’ più elevato per favorire la pienezza della birra, cloruri e solfati in quantità medio-bassa, in rapporto circa 1:1 (un po’ spostato verso i cloruri), e alcalinità bassa. Inoltre opto per l’acidificazione del pH di mash a 5,3 (misurato a 25°C) con acido citrico. Non me ne occorre tanto e, anche se ha una soglia di percezione abbastanza bassa, dicono che accentui le note agrumate/fruttate. Un’altra aggiunta un po’ particolare è una piccola quantità di farina in bollitura (aggiunta sciogliendola a parte in un po’ di acqua, e poi versata in bollitura), per ottenere una torbidità da amido. Questa modifica è ormai collaudata da diverse cotte (la lessi per la prima volta sul libro Mastering Homebrew: The Complete Guide to Brewing Delicious Beer di Randy Mosher), e con qualche piccolo accorgimento mi dà grandi soddisfazioni (ottengo una torbidità più stabile di quella proteica). Inoltre dovrebbe anche essere storicamente valida, in quanto originariamente le blanche venivano prodotte con il sistema di ammostamento turbid mash. Questo particolare e macchinosissimo regime di mash, utilizzato anche per le birre a fermentazione spontanea, produceva un mosto ricco di destrine e di amido non convertito (che avrebbe svolto la funzione di nutrimento per i Brettanomyces nelle fasi avanzate della fermentazione spontanea).
E questi credo siano tutti i dettagli di questa ricetta che, lungi dall’essere arrivata ad una versione definitiva, è frutto comunque di un percorso abbastanza lungo. Il risultato è comunque una ricetta relativamente semplice, per una birra semplice (ma dal profilo elegante ed equilibrato). Un parere personale che ho maturato da un po’ (sul quale magari in futuro cambierò idea, alla luce di nuove esperienze), è che spesso non servano ricette complicate con tanti ingredienti per produrre ottime birre, ma che l’eleganza e l’equilibrio del risultato stiano nella semplicità degli ingredienti, nella corretta esecuzione del processo e soprattutto nella cura dei dettagli.
E mi raccomando, se doveste provare questa ricetta, o una versione modificata, fatemi sapere come vi sembra!