Racconti di birra: “Una bitter divisa – Capitolo 1”

È passato quasi un anno da quando lo scatenarsi della pandemia ha comportato pesanti cambiamenti nella nostra quotidianità. Chi più chi meno, ci siamo ritrovati a rivedere o eliminare comportamenti e abitudini che consideravamo normali, e sui quali fondavamo la nostra routine. L’impatto è stato sicuramente forte, da un punto di vista economico ma anche psicologico. Di fronte a questo genere di eventi, le cui sorti sono al di fuori del nostro controllo, non rimane che cercare di cogliere gli aspetti positivi delle nuove condizioni di vita imposte, in questo caso trovando degli sbocchi utili alla maggiore quantità di tempo che molti di noi si ritrovano a passare in casa.

Nel mio caso la scelta non è stata poi così difficile: più tempo da dedicare alle mie produzioni birraie casalinghe! E così, in questa serie di articoli che ho deciso di chiamare “Racconti di birra”, riporterò con toni leggeri le mie attività di homebrewer, sperando che possano intrattenervi e magari darvi alcuni spunti per le vostre produzioni.

Il mio impianto Grainfather all’opera

Da tempo mi sto dilettando nell’approfondimento delle birre tradizionali inglesi (mild, bitter e porter), e per me in questo genere di birre il fattore discriminante tra una buona ed un’ottima birra è uno solo: il lievito. Dopo alcune cotte “di riscaldamento”, reputo di aver trovato una buona ricetta base per una bitter (sulla quale mi piace comunque giocare un po’, in base agli ingredienti disponibili). Avendo pronta la mia “tela bianca”, ho deciso di dare inizio ad un progetto in cantiere da tempo, ossia provare in modo sistematico i vari ceppi di lieviti inglesi disponibili sul mercato. In questa sperimentazione affiancherò anche alcune pratiche di fermentazione inusuali, con le quali però mi sono trovato molto bene già nelle cotte preliminari. L’idea di base è di dividere ogni produzione (i classici 22-24 L) in due fermentatori da 16 L, utilizzando in ciascuno un lievito diverso. Ciò mi permetterà di dimezzare i tempi per provare i numerosi ceppi inglesi, e di salvaguardare anche la salute del mio fegato (visto che la birra prodotta va anche consumata, ed in tempi di lockdown è diventato difficile farsi aiutare). Ma dunque bando agli indugi e passiamo subito alla ricetta base:

I parametri cardinali della birra sono all’interno del range BJCP. L’idea è quella di ottenere un buon bilanciamento tra la parte maltata (con note leggermente tostate, di biscotto e toffee), un amaro deciso ma pulito, e le note fruttate del lievito. Carbonazione ovviamente bassa (1,6-1,8 volumi), e temperatura di servizio 10-12 °C. Per l’acqua uso il seguente profilo: bicarbonati medio-bassi, calcio abbondante, cloruri e solfati in rapporto di circa 1:1 (ho provato precedentemente un classico 1:2 verso i solfati, con buoni risultati, ma volevo provare a cambiarlo). Il grist è abbastanza classico: base di Pale Maris Otter, un po’ di Pale Crystal per dare dolcezza e leggeri sentori biscottati, una punta di Chocolate per aggiustare il colore. Questa volta ho voluto provare i fiocchi di orzo, per vedere l’effetto sul mouthfeel. Li uso con soddisfazione su una Irish Dry Stout in quantità del 20%, ed ero curioso del risultato che possono dare su una bitter. Come ammostamento anche un classico mono step a 65-66 °C avrebbe potuto andare benissimo, ma personalmente sto facendo alcuni esperimenti sull’efficienza e quindi ho voluto provare un mash-in basso (53 °C), con rampa immediata alla temperatura di saccarificazione delle beta-amilasi (63 °C). L’idea, avallata da alcuni interessanti articoli, è che un mash-in a temperatura più bassa riduca lo stress termico sugli enzimi, prolungandone l’attività. Probabilmente nulla che abbia grande influenza sui risultati nei processi casalinghi o quantomeno su una birra “semplice” come una bitter, ma come già detto mi diverto a sperimentare. Probabilmente questo tipo di mash-in può tornare utile su birre nelle quali presumiamo di fare lunghi step di saccarificazione a 63-65 °C, e nelle quali quindi vogliamo preservare al massimo l’azione delle beta-amilasi, che sono altrimenti alquanto sensibili al calore e possono aver terminato la loro attività già dopo 20-40 minuti a 65 °C.
Segue la sosta per le alfa-amilasi ed il mash-out.

Per la luppolatura mi affido all’ottimo Target in amaro, con il solito first-wort hopping, che trovo comodo e vantaggioso sotto diversi punti di vista. Purtroppo sul Grainfather e sugli all-in-one in generale non è comodissimo da eseguire, dovendo scostare il cesto dei malti per gettare il luppolo all’inizio dello sparge. A 5 minuti gittata di tre classici luppoli inglesi, per un po’ di aroma e flavour: East Kent Golding, Fuggle e Challenger. Ricerco da loro leggere note agrumate, erbacee e terrose. Bollitura 60 minuti. Utilizzo un classico chiarificante a base di carragenina per aiutarmi con la rimozione di proteine e polifenoli causanti torbidità. Inutile dire che su uno stile come una bitter, una certa limpidezza sia un bel valore aggiunto. Piccola nota: luppoli in coni o in pellet? Io dico, su questo genere di birra ritengo sia indifferente. Se come me siete degli inguaribili romantici usate pure i coni, sappiate però che a parte i risvolti emotivi, il risultato sarebbe presumibilmente lo stesso anche con i pellet (su altre birre invece i pellet sono d’obbligo, ma ne parleremo in un altro post).

I due fermentatori da 16L utilizzati per l’esperimento. Al centro del coperchio è posto un pozzetto dove inserisco la sonda di temperatura (in questo caso di un doppio termostato), per monitorarla. All’occorrenza potrei collegare anche delle cinture riscaldanti, ma al momento le coperte con gli orsetti sono sufficienti per il mantenimento della temperatura corretta.

Come profilo di fermentazione mi sto trovando molto bene con il seguente: inoculo a 18 °C, e lascio che la temperatura salga naturalmente per l’attività del lievito fino a 20 °C, dove di solito rimane costante (in quanto la fase tumultuosa e maggiormente esotermica è ormai finita). In questo momento non ho la possibilità di controllare la temperatura di due fermentatori, quindi mi affido ad una stanza a 16 °C fissi, e ad alcune coperte (rigorosamente con gli orsetti). Avendo un po’ di cotte alle spalle con questo setup ho verificato che l’andamento della temperatura è quello atteso, senza la necessità si scaldare o raffreddare con una fonte esterna, quindi mi trovo bene così. D’estate probabilmente dovrò interrompere la produzione in doppio (e tornare al FermZilla da 27 L raffreddato a glicole) o trovare un’altra soluzione. Per sicurezza monitoro comunque la temperatura con una sonda inserita in un pozzetto al centro del fermentatore. Giusto per essere sicuro che non ci siano sorprese.

Questa è la mia ricetta base, nel prossimo post ci addentreremo sulla gestione dei lievito (e sulla stima dell’inoculo). Vi anticipo già i primi due ceppi oggetto di questo esperimento: il Wyeast 1469 West Yorkshire e il Wyeast 1187 Ringwood Ale!

Link alle materie prime:

Link all’attrezzatura:

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