In questo nuovo articolo andremo ad approfondire alcuni aspetti peculiari dei lieviti inglesi, a partire da quelle che furono le metodologie utilizzate storicamente nei birrifici britannici, per arrivare alle tecniche che possiamo adottare oggigiorno in birrificio o in casa per ottenere il massimo da questi ceppi particolari.

I lieviti ai quali oggi ci riferiamo come “inglesi” sono ceppi di Saccharomyces cerevisiae, isolati ed identificati in birrifici della penisola britannica. Si tratta di un gruppo abbastanza eterogeneo di lieviti ad alta fermentazione, accomunati da livelli di flocculazione da medio alti ad alti, livelli di attenuazione medio-bassi (perlopiù tra 70% e 75%), ed una media produzione di esteri. Tutte queste caratteristiche possono essere più o meno spinte in base al singolo ceppo considerato. Possiamo individuare principalmente due gruppi, che G. Wheeler chiama “i lieviti del nord, ed i lieviti del sud” (Northern yeast; Southern yeast), anche se oggigiorno non vi è un’effettiva divisione geografica. I lieviti del nord (ad esempio i ceppi Yorkshire) tendono ad essere molto flocculanti, con un profilo fruttato pronunciato, attenuazioni basse (70%), e hanno la tendenza a produrre birre con concentrazioni maggiori di diacetile. La produzione di esteri è una delle loro peculiarità più interessanti, in quanto li rende in grado di dare un profilo interessante a birre altrimenti molto “semplici”, abbinandosi egregiamente agli aromi derivanti da malti e luppoli. Le elevate capacità flocculanti permettono di ottenere birre pulite in breve tempo, mentre le attenuazioni medio-basse conferiscono alle birre un corpo rotondo e amabile, anche a basse gradazioni alcoliche (3-4 %alc). I lieviti del sud invece tendono ad essere più rapidi nella fermentazione, più secchi (attenuazioni apparenti intorno al 75%) e leggermente aspri/terrosi, e meno flocculanti. Sono lieviti meno “esigenti” che portano con più facilità a termine la fermentazione.
Alcuni ceppi di lieviti inglesi stanno trovando interessanti risvolti nella produzione delle moderne birre luppolate, in particolare nelle NEIPA. Ben si adattano infatti a questo stile, in quanto da un lato la loro attenuazione media garantisce birre dal finale più morbido, e dall’altro pare che abbiano una buona attitudine alla cosiddetta bioconversione degli olii aromatici del luppolo (l’insieme di reazioni biochimiche con il quale il lievito è in grado di modificare le molecole aromatiche apportate dal luppolo). Da quanto detto finora, i lieviti inglesi parrebbero un’opzione molto allettante per il birraio. Tuttavia, il loro utilizzo non è così diffuso (a scapito di ceppi americani, considerati molto più “solidi” ed efficienti), e si sono guadagnati la fama di lieviti complessi da gestire e dai risultati incerti. Spesso infatti sono fautori di problematiche quali attenuazioni troppo basse, fermentazioni bloccate, profili aromatici sgradevoli e rifermentazioni incontrollate, con conseguenti fenomeni di gushing ed off-flavours.
Questa fama non è del tutto infondata, in quanto i loro pregi sono strettamente correlati anche ai loro difetti, che possono però essere evitati osservando alcune accortezze. Come dicevamo infatti, l’estrema capacità flocculante di alcuni ceppi britannici li rende capaci di depositarsi rapidamente ed in modo compatto sul fondo del fermentatore alla fine della fase tumultuosa. Ciò garantisce la produzione in breve tempo di birre limpide senza la necessità di filtrazione, chiarificanti o cold-crash. Allo stesso tempo però, il rischio è che questo lievito (in particolare i ceppi del nord) si depositi sul fondo e vada in “stallo” prima della fine della fermentazione, lasciando quindi la birra sottoattenuata, e con eventuali off-flavour fermentativi (diacetile in particolare). In seguito, durante la maturazione della birra confezionata (o la rifermentazione, se effettuata), il lievito potrebbe “risvegliarsi”, attenuando gli zuccheri che erano rimasti e dando vita sia a livelli eccessivi di carbonazione, che ad alcuni aromi non gradevoli (ad esempio acetaldeide, che conferisce sentori di mela verde, solvente, birra giovane). Come fare per evitare tutto ciò? Uno dei consigli più diffusi è quello di alzare la temperatura della birra di qualche grado al termine della fase tumultuosa, per aiutare il lievito a terminare gli zuccheri rimasti ed a riassorbire il diacetile. Un’altra pratica però, forse più efficace ma che può risultare un po’ inconsueta, è quella di riportare in sospensione il lievito depositatosi sul fondo. Se a livello casalingo questo può essere fatto semplicemente o agitando il fermentatore o con una paletta, a livello di birrificio viene fatto tramite pompe di ricircolo o insuflaggio di anidride carbonica dal fondo. Questa operazione va fatta circa 24-48 ore dopo l’inizio della fermentazione, per rimettere in sospensione cellule ancora molto vitali che si sono depositate precocemente. A qualcuno potrebbe sembrare una pratica strana, se non rischiosa (da un punto di vista di eventuali contaminazioni o di ossidazione indesiderata). Tuttavia si tratta di qualcosa di assolutamente normale, per le produzioni brassicole tradizionali inglesi. Se pensiamo ai fermentatori dei birrai professionisti, siamo portati ad immaginarci fermentatori troncoconici perfettamente sigillati e sanitizzati, dove la presenza di ossigeno e contaminanti è scongiurata in modo meticoloso. Nella realtà, l’utilizzo di questo tipo di fermentatori è un’introduzione relativamente recente nel mondo inglese, dove precedentemente erano più tradizionali fermentatori bassi, aperti e di forma quadrata (tipo vasche). Sicuramente anche la geometria bassa e larga di questi fermentatori ha influito sulle prestazioni fermentative e capacità flocculanti di questi ceppi. I lieviti inglesi sono infatti stati utilizzati (e quindi selezionati) per secoli in questo tipo di fermentatori, nei quali venivano recuperati e poi riutilizzati nelle cotte successive tramite il top-cropping. Questa pratica, semplice da attuare in questo tipo di fermentatori aperti, consiste proprio nel raccogliere il lievito in superficie durante la fase tumultuosa della fermentazione. Il lievito così recuperato si trova da un punto di vista di vitalità e condizioni metaboliche in ottimo stato, con un basso quantitativo di impurità e una bassa presenza di cellule vecchie o mutate (cosa invece ben più frequente se il lievito viene recuperato ad esempio dal fondo del fermentatore; bottom-cropping). Ancora più particolare è il sistema di fermentazione aperto Yorkshire Square (pensato appunto per ceppi del nord, come quelli caratteristici di alcuni birrifici dello Yorkshire). In questo caso, la vasca di fermentazione è dotata di una specie di “controsoffitto”, con un buco al centro. Durante la fase tumultuosa della fermentazione, la massa di lievito flocculato formava un cospicuo cappello di schiuma, e salendo attraverso il foro si accumulava su questo “controsoffitto”, facilitandone il recupero successivo. Per favorire una corretta fermentazione ed attenuazione, vi era un sistema di ricircolo che a intervalli regolari pescava la birra dal fondo e la spruzzava sul cappello di lievito, sprezzante dei pericoli di ossidazione o contaminazioni. Per quanto possa sembrare assurdo, vi sono tutt’ora birrifici che utilizzano questo tipo di fermentatori. E producono ottime birre.

Samuel Smith Brewery, North Yorkshire.
Photo by Samuel Smith Brewery/[email protected]
Senza pensare di installare nelle proprie produzioni un simile sistema, un po’ estremo, si possono valutare altre alternative per favorire la risospensione del lievito e una leggera ossigenazione nelle prime 24-48 ore (dipendentemente dalla lunghezza della lag-phase), in particolare nel caso si utilizzino ceppi di lieviti inglesi particolarmente flocculanti. Per alcuni ceppi può giovare anche una agitazione periodica durante tutta la fermentazione tumultuosa, quindi fino a 72-96 ore dall’inizio della fermentazione. Tale accortezza porta a mio avviso ottimi giovamenti sia in termini di profilo aromatico, che di attenuazione.

Attualmente sono stati sostituiti da fermentatori aperti in acciaio inox di forma cilindrica, sempre dotati di controsoffitto e di sistema di “rimontaggio” del mosto.
Photo by Virtual Labs @ Leeds/virtual-labs.leeds.ac.uk
Un’altra considerazione interessante riguarda infine il concetto di coltura pura. Anche questa è un’introduzione relativamente moderna nel mondo della produzione birraia. Fino a un paio di secoli fa la microbiologia non esisteva, e tantomeno il concetto di inoculo in purezza. In molti caso ogni birrificio possedeva non il suo lievito, ma i suoi lieviti, in quanto le colture utilizzate contenevano più ceppi di lieviti (e presumibilmente anche batteri o lieviti non della specie Saccharomyces cerevisiae). Per il mondo inglese in particolare, dati i suoi metodi produttivi peculiari (fermentazioni in vasche aperte, top-cropping con conseguente riutilizzo del lievito per moltissime produzioni), è verosimile che fino a tempi recentissimi, e per alcuni pratica ancora attuale, il lievito utilizzato fosse costituito da un blend di più ceppi.
La possibilità di poter combinare diversi lieviti apre scenari molto interessanti, dove è possibile attingere agli aspetti positivi di vari ceppi in una singola birra e ottenere interessanti effetti sinergici. L’esempio più banale è la combinazione di un ceppo poco attenuante, ma dal profilo di esteri particolarmente caratterizzante e gradevole, con un ceppo più neutro, ma più attenuante. Nello scenario migliore possibile ciò ci permette di ottenere una fermentazione vigorosa e completa, con un buon livello di attenuazione (e quindi stabilità nel tempo o post rifermentazione), ma allo stesso tempo un profilo fermentativo caratterizzante e piacevole. Alla luce di quanto detto sopra, un’interessante esperimento è un blend con un lievito inglese del nord ed uno del sud (esperimento che ho avuto modo di provare, e di cui parleremo in articoli futuri). Ovviamente utilizzare più lieviti non è assolutamente scontato sia così lineare. È possibile che una coltura prenda il sopravvento sull’altra, vanificando lo scopo del blend, o che qualche meccanismo di competizione negativa porti alla perdita di tutte le caratteristiche ricercate di entrambi i ceppi, ottenendo un effetto totalmente contrario a quello desiderato. Il lievito è imprevedibile, e le possibili combinazioni da testare virtualmente infinite (soprattutto se alla possibilità di blendare i lieviti, aggiungiamo anche le variabili di tassi di inoculo differenti per i singoli ceppi, tempistiche di inoculo diverse, etc.).
Alcuni produttori di lievito hanno già iniziato a mettere a disposizione blend di lieviti (non solamente inglesi, ma anche belgi e tedeschi), segnale che si tratta di una materia di grande interesse e che sicuramente avrà uno sviluppo nei prossimi anni. Un ulteriore esempio ne è il lievito kveik, coltura mista di lieviti non Saccharomyces cerevisiae estremamente particolare, originaria della penisola scandinava (e recentemente divenuta disponibile anche sotto forma di lievito secco). Questo mix di lieviti possiede la particolare capacità di fermentare senza off-flavour a temperature estremamente elevate, intorno ai 30°C, ed è particolarmente adatto alla conservazione in forma essiccata.

Photo by Mika Laitinen/brewingnordic.com
Anche questo articolo è giunto al termine. Spero che la sua lettura vi abbia dato nuovi spunti sui lieviti inglesi, e magari la voglia di sperimentare qualche blend. Se avete qualche parere da condividere, non esitate a commentare qua sotto!
For a quart of Ale is a meal for a King.
– William Shakespeare
Bibliografia essenziale:
- Boulton C. & Quain D., Brewing yeast & fermentation, Blackwell Publishing (UK)
- Wheeler G., CAMRA’S Brew your own British Real Ale, CAMRA Books (UK)