Con il diffondersi dei fermentatori in grado di mantenere la pressione (o dei Cornelius keg utilizzati a tale scopo), anche gli homebrewers hanno avuto accesso a tecniche fino ad allora a quasi esclusivo appannaggio dei professionisti: il trasferimento in pressione ed il confezionamento isobarico. I vantaggi principali di queste procedure consistono nella ridottissima immissione di ossigeno e nella possibilità di confezionare birra già carbonata, evitando la rifermentazione (con i suoi pro ed i suoi contro). Un’altra possibilità forse meno esplorata è invece la fermentazione in pressione. Questa tecnica prevede di condurre parte della fase primaria di fermentazione (e la maturazione) a pressioni maggiori di quella atmosferica, ricercando dei precisi effetti sul metabolismo del lievito, e quindi sulle caratteristiche che esso impartisce alla birra. In linea teorica il lievito può essere soggetto a tre “tipologie” di pressione: la pressione osmotica (dovuta alla differenza di concentrazione dei soluti tra l’ambiente circostante e l’interno della cellula, che provoca la tendenza del liquido a entrare/uscire dalla cellula per equilibrare questa differenza, creando quindi un differenziale di pressione); la pressione idrostatica (il lievito presente nella birra ed in particolare sul fondo del fermentatore, oltre alla pressione atmosferica subisce su di sé anche la pressione della colonna di liquido che lo sovrasta); ed infine la pressione dei gas nello spazio di testa del fermentatore (essa non agisce direttamente sulla cellula di lievito, ma aumenta significativamente la solubilità di questi gas nel mosto/birra, ed in particolare dell’anidride carbonica).

La pressione idrostatica è potenziale fattore di stress per il lievito. Ne è ben conscia l’industria birraia che non trascura la pressione esercitata dall’enorme massa di birra/mosto che “pesa” sui lieviti negli enormi fermentatori troncoconici, in quanto essa può portare alla lisi delle cellule ed a difetti nel prodotto finito. Mentre generalmente la pressione idrostatica non è rilevante nelle produzioni casalinghe, lo può essere la pressione osmotica, e gli homebrewers ne tengono conto quando producono birre con un °P elevato, in quanto esso rappresenta uno stress per il lievito non solo per il maggior grado alcolico al quale andrà incontro, ma anche per la concentrazione zuccherina iniziale elevata che esercita sulla membrana del lievito una pressione osmotica non indifferente. In questo post ci concentreremo però solamente gli effetti della pressione dello spazio di testa.

Come dicevamo l’effetto principale del variare della pressione di testa è influenzare la concentrazione di anidride carbonica nel mosto (maggiore la sovrappressione, maggiore la CO2 disciolta). La concentrazione di questo gas nel mosto/birra ha alcuni interessanti effetti nei confronti del lievito (in base alle concentrazioni in cui è presente): può inibire la moltiplicazione del lievito; ridurre sensibilmente la produzione di esteri ed in minor misura la produzione di alcoli superiori. Non ha tuttavia un’influenza significativa sulla velocità di assorbimento degli zuccheri e sull’attenuazione. Nei birrifici industriali, dove riveste un’enorme importanza economica la velocità di fermentazione e maturazione della birra, viene utilizzata la sovrappressione per condurre fermentazioni/maturazioni a temperature più elevate (14-20°C per le birre lager) tenendo sotto controllo la formazione degli esteri e in minor misura degli alcoli, ottenendo basse fermentazioni in minor tempo e con un profilo aromatico pulito.

I ricercatori non hanno ancora trovato una risposta definitiva sul meccanismo tramite il quale la CO2 eserciti questi effetti sul lievito. Una delle ipotesi è che essa inibisca la sintesi di Acetil-Coenzima A, molecola che costituisce il mattoncino basilare per la biosintesi degli acidi grassi da parte del lievito (utilizzati proprio per la sintesi della membrana cellulare, e quindi per la replicazione), nonché “metà” della molecola di un estere acetico (una delle classi più significative di esteri prodotti dal lievito). Questo spiegherebbe l’inibizione sulla replicazione cellulare e sulla produzione di esteri. Non è chiaro tuttavia l’effetto sulla biosintesi degli alcoli superiori, che è comunque meno influenzata dalla concentrazione di
CO2 rispetto a quella degli esteri.

A livello industriale esistono diversi modi di utilizzare combinazioni di temperatura e pressione per velocizzare la fermentazione e maturazione della birra, mantenendo un profilo il più possibile neutro. Generalmente la pressione viene alzata quando il lievito è al 50% dell’attenuazione (a pressioni che possono variare generalmente tra 1,2-1,5 bar), in concomitanza ad un proporzionale aumento della temperatura, per velocizzare le reazioni metaboliche del lievito e quindi la fermentazione e la maturazione della birra. Un’innalzamento invece troppo anticipato della pressione può comportare stress eccessivi sulla cellula del lievito, nonché un’inibizione dei cicli di replicazione iniziali (il che comporterebbe la necessità di un inoculo iniziale maggiore), e la maggiore ritenzione di alcuni off-flavour. Un esempio è l’acido solfidrico, molecola prodotta inizialmente dal lievito, ma molto volatile ed espulsa generalmente insieme alla CO2 nella fase più tumultuosa della fermentazione. A pressioni maggiori questa espulsione viene inibita, e la molecola permane in concentrazioni più elevate, impartendo un aroma di ridotto/zolfo.

Gli effetti della pressione sono stati perlopiù studiati su lieviti di tipo lager, in quanto i più utilizzati nella produzione industriale, nonché quelli che maggiormente beneficiano di un accorciamento dei tempi di maturazione. Studi condotti su ceppi ad alta fermentazione hanno evidenziato risultati molto diversi da quelli elencati precedentemente (in alcuni casi con aumento della produzione di esteri e di alcoli superiori), indice che vi sono aspetti ancora da chiarire, e che gli effetti della pressione dipendono significativamente dal ceppo di lievito utilizzato.

A differenza delle produzioni industriali o anche artigianali (tra le quali qualcuno sta già utilizzando questa tecnica), gli homebrewers non hanno la necessità economica di restringere le tempistiche di maturazione della birra. Tuttavia qualche sperimentazione a riguardo, per chi possiede già l’attrezzatura adatta poiché effettua confezionamento isobarico, è un’ulteriore occasione per arricchire il proprio bagaglio di esperienza da birraio.

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