Nello scorso capitolo ci eravamo lasciati con la stesura della ricetta base per la bitter. Ora siamo pronti per definire meglio quella che sarà invece la gestione dell’ingrediente oggetto dell’esperimento: il lievito. Chi segue la mia rubrica avrà già letto di alcune tecniche di fermentazione tradizionali inglesi che mi avevano affascinato (altrimenti vi consiglio di leggere il post dedicato). Già da tempo ho applicato alcuni di questi principi adattandoli alle procedure da homebrewing, con risultati che ritengo molto interessanti. Quando utilizzo determinati ceppi di lieviti inglesi ho infatti iniziato ad agitare il mosto in fermentazione per le prime 72 ore, ad intervalli di 12 ore. L’agitazione avviene in modo molto rustico: mi carico il fermentatore sulle ginocchia (il Fermonster), estraggo il gorgogliatore e posiziono un tappo al suo posto, ed inizio ad agitare vigorosamente, sia per riportare in sospensione le cellule depositatesi, sia per re-inglobare il denso cappello di lievito che si è formato sulla superficie (dipendentemente dal comportamento del lievito). Questo non dovrebbe comportare una significativa ossigenazione, ma appunto solamente una migliore miscelazione del lievito con il mosto. Per alcuni ceppi inglesi, molto flocculanti, questo comporta significativi benefici sulla rapidità della fermentazione, sull’attenuazione, e sulla pulizia fermentativa (provare per credere). Di solito in 3-5 giorni arrivo all’80-85% dell’attenuazione apparente prevista. Ovviamente il lievito di partenza deve essere in condizioni ottimali, ed inoculato ad un tasso opportuno. Nel mio caso, volendo provare dei ceppi molto specifici, i ceppi utilizzati sono i lieviti Wyeast, opportunamente starterizzati con agitatore magnetico per ottenere un inoculo stimato di 0,75-1 milione UFC/mL/°P (lo stimo con questo calcolatore). Quando mancano pochi punti all’attenuazione finale prevista (di solito 4-5 giorni dopo l’inoculo), trasferisco in fusto per il cask conditioning (e aggiungo in questa fase isinglass e silice colloidale).
Eh già, hai letto bene, cask conditioning.
Questa pratica non molto diffusa differisce dalla rifermentazione classica, in quanto non viene aggiunto ulteriore zucchero per una seconda fermentazione nel recipiente finale, ma a determinare la gasatura saranno gli zuccheri finali presenti nel mosto, non ancora completamente fermentato. La difficoltà sta nel riuscire a prevedere con esattezza quale sarà la densità finale della birra, in modo da poter calcolare, in base alla gasatura desiderata, a che densità procedere per l’imbottigliamento. Basta un errore di 2-3 punti nella stima per avere una birra piatta o eccessivamente carbonata (e con rischi di bombe a mano).

Nonostante un certo scetticismo iniziale, ho iniziato a sperimentarla da alcune cotte riscontrando ad ora dei buoni risultati. Questo è possibile anche perché i lieviti inglesi sono generalmente molto flocculanti, quindi mi permettono di ottenere birre limpide anche senza cold crash.
Con il cask conditioning snellisco molto il processo produttivo, ho il vantaggio che eventuale ossigeno introdotto durante il confezionamento venga assorbito dal lievito (essendo ancora discretamente attivo), e ottengo carbonazione e maturazione rapide e pulite. Così facendo infatti il lievito non va in stallo e poi si riattiva, come succede invece nella più classica successione di step “fermentazione-cold crash-rifermentazione”, ma tutto questo processo avviene senza grandi oscillazioni di temperatura, e in modo graduale mentre il lievito rallenta la sua attività in seguito al graduale calo di nutrienti. Mi rendo conto che queste considerazioni non hanno solide fondamenta scientifiche, ma i risultati che ho ottenuto sono stati interessanti, e mi sembra mi stiano consentendo finalmente di addomesticare parzialmente i lieviti inglesi, evitando ripartenze in fusto e in bottiglia anche senza mantenere la birra sempre in frigo.
Non escludo comunque che risultati analoghi o migliori si possano avere con la classica rifermentazione o con carbonazione forzate, ma per ora, dopo tanti tentativi, ho trovato così la mia quadra tra qualità della birra finita e semplicità di processo.
Nonostante i buoni risultati della carbonazione in cask, non ho nemmeno per un momento pensato di provare ad effettuare lo stesso processo in bottiglia in quanto se sbagliassi le mie stime, in bottiglia non avrei modo di verificare e correggere la carbonazione (mentre in fusto lo posso facilmente fare con un manometro, ed eventualmente sgasare oppure finire di carbonare forzatamente). Il bottle conditioning condotto in questo modo lo proverò magari più avanti, con una ricetta e un lievito ben collaudato del quale conosco bene tempistiche di fermentazione e attenuazione apparente.
A questo punto mi preme però fare una precisazione: quello appena descritto è il processo che utilizzo di solito, ma solamente sui lieviti inglesi! Su birre belghe, luppolate o su basse fermentazioni è tutta un’altra storia, quindi lungi da me consigliarvi di andare a prendere il vostro fermentatore con la bohemian pilsner in lagering, e mettervi ad agitarlo come se non ci fosse un domani! Per queste altre tipologie di birre e lieviti si applicano ben altri crismi, che vedremo in futuro.
Tornando ora agli inglesi: per la mia serie di esperimenti su base bitter volevo provare un’altra tecnica tradizionale inglese, ossia il trasferimento a caduta. In molti birrifici inglesi infatti (compreso Fuller’s fino a non troppi anni fa), il mosto veniva inizialmente posto in un tank dove avveniva l’inoculo. Successivamente, passate circa 24 ore, il mosto in fermentazione veniva trasferito per gravità in un altro serbatoio sottostante. Questo comportava tre effetti principali: la pulizia del mosto dal trub a freddo, una nuova ossigenazione (utile soprattutto in tempi nei quali non si avevano tecniche molto efficaci per ossigenare), e una miscelazione del lievito con tutta la massa del liquido.
Fatta questa lunga premessa, vediamo ora nel dettaglio il processo pratico:
- Quattro-cinque giorni prima della cotta provvedo a preparare lo starter per i due lieviti, in due beute e con due agitatori magnetici, a temperatura ambiente (20-24°C);
- Dopo 24-36 ore (o al termine di segnali di attività del lievito) spengo l’agitatore e lascio ancora un 12 ore di sosta, per assicurarmi che le cellule accumulino le risorse di glicogeno per la fase di lag e adattamento nella fermentazione successiva. Quindi pongo le beute in frigo;

- Il giorno della cotta, la mattina, estraggo le beute dal frigo, scarto il surnatante e lascio attemperarsi la pasta di lievito;
- Faccio la cotta e produco il mosto;
- Durante il raffreddamento aggiungo un po’ di mosto freddo nelle beute, e dopo alcuni minuti le agito per dissolvere bene il lievito nel mosto, e avere uno slurry più gestibile;
- Procedo con il raffreddamento (a 18°C) e ossigenazione del mosto, ed inoculo il lievito (NB: per successive stime di conta cellulare prendo bene il peso netto della pasta di lievito prima, e dello slurry dopo l’aggiunta di mosto. Vedremo meglio come usare questi numeri nel prossimo capitolo);

- Porto i due fermentatori in cantina a 15-17°C, posiziono il termostato, la sonda di temperatura, le cinture riscaldanti, e le coperte. Per ora setto la temperatura a 18°C ed il termostato unicamente in funzione riscaldante;
- Generalmente dopo 4-5 ore inizia l’attività del gorgogliatore;
- Dopo 24 ore dall’inoculo trasferisco in un altro secchio. La modalità di trasferimento in questa fase potrebbe nuocere ai più deboli di cuore: utilizzo direttamente il rubinetto piazzato sul fondo dei primi fermentatori, splashando vigorosamente. Essendo abituato a non agitare il mosto dopo l’inoculo, fa sempre un certo effetto. Quindi vi posiziono il coperchio con il pozzetto, e li riposiziono in cantina;

- Procedo ad agitare a fermentatore chiuso ogni 12 ore fino al terzo giorno compreso. In tutto questo monitoro la temperatura. Se dopo 36 ore non dovesse essere arrivata a 20°C per l’attività esotermica della fermentazione, setto il termostato a 20°C ed accendo le resistenze;
- Dopo 5 giorni procedo a trasferire con un sifone la birra in fusto (due fusti jolly da 9L); aggiungendo isinglass prima del riempimento, e silice colloidale alla fine. Chiudo il fusto, agito per bene, e pongo in cantina a 16°C, per almeno 2, meglio 4, settimane di maturazione;
- Durante la maturazione monitoro la pressione. A 16°C mi aspetto tra 0,7 e 1 bar, per avere 1,5-1,8 volumi di anidride carbonica disciolti. Se eccedo sfiato, se non ci arrivo, aggiungo forzatamente altra CO2;
- A birra matura, metto i fustini nel Kegerator a 12 °C, il tempo di raffreddarsi e siamo pronti per la degustazione!

Nel prossimo capitolo commenteremo il risultato di questo primo esperimento!